E ora è il turno del flauto, nel trentennale mistero che circonda la scomparsa di Emanuela Orlandi. Fatto trovare a “Chi l’ha visto?” non si sa bene da chi né dove, ma già attribuito a Emanuela Orlandi, la ragazzina del Vaticano, scomparsa 30 anni fa, quando era quasi sedicenne, vista per l’ultima volta il 22 giugno 1983 alla fermata dell’autobus di fronte al Senato in corso del Rinascimento a Roma e sparita nel nulla.
Per i primi 25 anni si è fatto credere, con una messinscena, che fosse stata rapita per essere scambiata con il terrorista turco Alì Agca condannato all’ergastolo per avere sparato nell’81 a Papa Giovanni Paolo II Wojtyla ferendolo gravemente. Dal 2005 invece si è voluto far credere che Emanuela Orlandi sia stata rapita dalla banda della Magliana per ricattare il Papa e farsi restituire i miliardi di lire prestati alla banca vaticana Ior e da qui evaporati nel nulla.
Dall’anno scorso, il 2012, ha infine preso piede la pista sessuale. Che i magistrati avevano imboccato subito, fin dai primi giorni della scomparsa, tant’è che del caso si occupava la Sezione Omicidi della Squadra Mobile romana, ma poi furono costretti a inseguire i fantasmi del rapimento “politico” prima e di quello malavitoso dopo, perdendo così ben 30 anni di tempo in indagini inutili.
Se il flauto fosse davvero di Emanuela sarebbe la prima volta, in 30 anni, che viene fatto rinvenire un suo oggetto. All’epoca, infatti, chi si spacciava per il portavoce dei suoi asseriti rapitori fece ritrovare solo fotocopie: quelle della tessera di iscrizione di Emanuela alla scuola pontificia di musica Ludovico Da Victoria e quella di un pezzo di spartito.
Fino al 1990 la scuola di musica si trovava al terzo e quarto piano del Palazzo di S. Apollinare nella piazza omonima. Il portavoce dei “rapitori” venne soprannominato “l’Americano”, perché a detta di Mario Meneguzzi, lo zio di Emanuela che rispondeva alle telefonate in casa Orlandi nel primo periodo dopo la scomparsa, il suo accento “pareva straniero, come fosse americano”. In realtà però, l’accento ricorda quello polacco e una delle cose strane delle indagini, fatte male, è che nessuno abbia pensato di rivolgersi ad esperti per capire di che tipo di accento si trattasse. I servizi segreti civili, che si chiamavano ancora Sisde, fonirono ai magistrati il profilo tracciato dai loro esperti, secondo i quali “l’Americano” era o era stato un prete. Ma di nazionalità non se n’è mai parlato.
I magistrati hanno sequestrato il flauto per sottoporlo all’analisi del Dna. Se ci sono tracce di saliva, il suo Dna, comparato con quello degli Orlandi, dovrebbe dire se il flauto è stato o no di Emanuela. Speriamo non finisca tutto nel silenzio senza risposte come purtroppo è già successo in troppe “rivelazioni” e rinvenimenti “risolutivi”.
Non s’è infatti più saputo nulla, segno di altrettanti buchi nell’acqua, del Dna sulla Bmw fatta trovare dal solito “supertestimone” misterioso nel garage di villa Borghese a Roma e subito indicata come la Bmw con la quale Emanuela era stata rapita; nulla anche per il Dna del teschio fatto trovare nel confessionale della chiesa di S. Gregorio VII, vicina alle mura vaticane, e nulla per il Dna delle eventuali tracce di residui organici nelle “prigioni di Emanuela” a Torvajanica, sul litorale a sud di Roma, e nel quartire romano Monteverde.
Quest’ultima prigione fu indicata nel 2008, sempre da “Chi l’ha visto?”, come certamente utilizzata per nascondere Emanuela. Per non parlare delle migliaia di campioni di Dna dei resti dell’ossario della basilica di S. Apollinare, contigua all’omonimo Palazzo, nella quale era sepolto Enrico De Pedis, morto incensurato ma fatto considerare “capo della banda della Magliana” e anche per il rapitore di Emanuela.
La fotografa romana Roberta Hidalgo nel 2012 ha scritto un libro sul caso Orlandi basandosi sulle analisi del Dna del sangue mestruale della moglie del fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, signora Patrizia Marinucci, e dei capelli delle madri di costei e di Emanuela.
Tutto ciò dimostra che non è impossibile procurarsi materiale organico degli Orlandi per contaminare magari un flauto o altri da far trovare poi a ” Chi l’ha visto?” o agli inquirenti. Senza contare come sia evidente che l’interesse per tenere in piedi quello che ormai si può chiamare Emanuela Orlandi Show è tale da poter innescare montature come la telefonata anonima del 2005 a “Chi l’ha visto?” che ha scatenato i sette anni di caccia al fantasma di De Pedis. È evidente che c’è da parte di non si sa ancora chi tutto l’interesse che l’inchiesta giudiziaria non segua il suo corso e non tracci il bilancio finale, fallimentare.
Il fratello Pietro e la sorella Natalina di Emanuela hanno dichiarato che il flauto fatto trovare pare proprio quello della loro sfortunata sorella. Purtroppo però non è la prima volta che entrambi hanno rilasciato dichiarazioni a carico del Tale o del Talaltro o espresso convinzioni rivelatesi infondate.
Appare inoltre francamente strano che il flauto fatto trovare sia stato avvolto in un foglio di giornale del 29 maggio 1985 contenente un’intervista al padre di Emanuela, Ercole Orlandi. Contrariamente a quanto ha dichiarato Pietro, procurarsi – anche oggi – un giornale di quell’epoca non è affatto difficile. Così come non è difficile procurarsi un flauto della ditta Cazzani e Ramponi degli anni ’80.
Insomma, come al solito, agli ottimisti non resta che aspettare. Peccato avere perso 30 anni abboccando a montature, oltretutto evidenti.
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